In Italia l’interruzione di gravidanza, o aborto terapeutico, eseguito dopo il primo trimestre, è possibile solo nel caso in cui sussistano seri rischi per la vita della futura mamma, nonché per la sua salute fisica e mentale. A tal fine è necessaria una certificazione medica, inoltre è concesso intervenire solo fino a quando non sia possibile che il feto non possa avere vita autonoma.
Qual è la procedura
L’aborto terapeutico è una pratica che favorisce l’espulsione appunto del feto, attraverso una induzione al travaglio. Secondo quanto stabilito dalla legge numero 194 del 1978, nel nostro Paese, è possibile ricorrere all’interruzione di gravidanza anche dopo i novanta giorni di gestazione. E’ in questi casi che si parla, appunto, di aborto terapeutico. Questa procedura viene praticata sono nei casi in cui ci sia accertata evidenza di rischio per la vita della futura mamma. Certificazione che deve essere attestata da un medico.
E’ doloroso?
Nel caso di aborto terapeutico, il travaglio può risultare molto doloroso, quanto il normale travaglio fisiologico di un parto. Tuttavia, al fine di evitare tale dolore, si può ricorrere ad alcune procedure, in quanto, non è necessario seguire tutte le precauzioni di salvaguardia del feto che, solitamente, vengono prese nel caso in cui si tratti di un parto regolare. Le strategie per controllare il dolore possono essere molto differenti, in relazione al centro medico al quale ci si rivolge.
E’ possibile ricorrere, proprio per attenuare il dolore, all’anestesia epidurale. Questa può essere praticata solo se sia disponibile un anestesista. In alcuni casi potrebbe anche essere complicato eseguire questa pratica, perché l’anestesista presente, potrebbe essere un obiettore di coscienza. Va sottolineato come la donna, in ogni caso, ha diritto a chiedere una terapia del dolore che sia efficace.
Come muore il feto
Se la gestazione è alla 15 o 16a settimana di gravidanza, l’interruzione può essere praticata in modo simile a come avviene nei primi 90 giorni. Si esegue quindi uno svuotamento dell’utero in anestesia generale. Ciò può essere fatto per aspirazione, in termini tecnici si parla di isterosuzione, oppure si ricorre a raschiamento.
Trascorse le 15 o 16 settimane, al contrario, è necessario indurre la donna al travaglio, che pertanto viene definito abortivo. Questo porta poi all’espulsione del feto. In tal caso, il procedimento può essere fatto mediante somministrazione periodica di prostaglandine per via vaginale, in modo da indurre l’utero a contrarsi e far partire il travaglio. I tempi necessari per l’induzione e il travaglio sono correlati al mondo in cui la donna risponde al farmaco. Tuttavia, i tempi necessari variano tra due o tre ore; in rari casi anche due giorni.
Oppure è possibile ricorrere ad assunzione per via orale di mifepristone, la nota pillola abortiva RU486. Questa viene poi seguita da somministrazione di prostaglandine per via vaginale. La pillola RU486 dimezza i tempi del travaglio abortivo. Va altresì precisato che non tutti i centri che eseguono aborti terapeutici, ammettono tale protocollo d’azione, per cui si rischia di allungare la sofferenza della donna.
Aborto eugenetico e terapeutico
L’aborto eugenetico o terapeutico segue quanto stabilito dalla legge in merito all’interruzione di gravidanza e può essere praticata solo nei casi specifici indicati dalla stessa. Il primo di essi è quando la gravidanza e il parto è comprovato che possano comportare un effettivo rischio per la vita della donna. Ad esempio, in caso di emorragia dovuta a distacco di placenta, oppure di una rottura prematura del sacco amniotico, cui sia seguita una infezione generalizzata. Oppure ancora, in caso di insorgenza di condizioni che mettano in discussione la possibilità di portare a termine la gravidanza, quali, specifiche patologie cardiache nella madre.
La seconda situazione è quella in cui ci siano dei processi patologici, comprese malformazioni o malattie del feto, che comportano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In questi casi, tuttavia, deve essere il medico a certificare che ci sia pericolo per la vita della donna, o condizioni fetali che mettono a rischio la sua salute. Ciò viene accertato mediante ecografie, amniocentesi, villocentesi.